giovedì 25 aprile 2013

C'era una volta poi non c'è più

C'era una volta il Partito Comunista Italiano. C'erano una volta le sezioni, le federazioni, i congressi locali e poi il Congresso Nazionale.  La linea stabilita vincolava tutti i militanti. Chi non era d'accordo poteva accomodarsi o veniva accompagnato alla porta. La scelta dei partiti in cui trovare asilo era ampia e variegata. Il PCI, grazie ad una ferrea disciplina interna, è stato per un quarantennio il più grande partito comunista dell'Europa occidentale. Un partito in grado di influire sulle vicende politiche nazionali, stando sempre all'opposizione. La questione morale, attuale oggi più di allora, era stata evocata da Berlinguer nel 1977. In tempi non sospetti denunciò le corrutele e la sistematica occupazione dei posti di potere da parte delle oligarchie partitiche.

Il PCI sopravvisse di pochi anni alla morte di Berlinguer. Nel 1989, esattamente tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Occhetto annunciò la storica svolta: l'apertura di un nuovo corso nella storia del Partito Comunista. Nel 1991 il PCI si sciolse e nacquero il Partito Democratico della Sinistra e Rifondazione Comunista, da cui nel corso degli anni sono uscite varie formazioni di ispirazione marxista.Nel 1997 il PDS diventa DS. Nel nome si mantiene un aggancio alla sinistra e si elimina il riferimento alla forma partito, che evidentemente era già imbarazzante.

Nel 2007 nasce il Partito Democratico. Dall'esame del suo albero genealogico si possono forse comprendere molte delle contraddizioni che agitano oggi il più importante partito della sinistra italiana. Il PD sin dai suoi primi vagiti si presenta come tutto e il suo contrario, come un partito inclusivo, interclassista e aperto alle più svariate tendenze culturali: riformista, europeista, progressista, laico ma anche cattolico, con i lavoratori ma anche con gli imprenditori, dalla parte dei giovani senza dimenticare i vecchi. Chiunque, questo il progetto veltroniano ben sintetizzato  dal maanchismo, avrebbe avuto delle buone ragioni per votare il PD. Si sarebbe dovuto realizzare il sogno di Uòlter l'Americano: due candidati premier, usciti vincitori dalla primarie dei rispettivi partiti, sempre più leggeri e simili a comitati elettorali, si contendono il governo del paese. Uno vince e governa, l'altro perde, telefona al vincitore e incrocia le dita sperando che il suo competitor infili un errore dietro l'altro e perda popolarità.

L'ultimo ventennio della vita politica italiana è stato dominato dalla presenza di un uomo d'affari prestato alla politica, cosa che dovrebbe di per se essere un limite. L'atteggiamento del PDS - DS - PD è stato piuttosto altalenante: a momenti di doverosa intransigenza etica se ne sono alternati altri di cedimento, non solo circa la legittimità di un erotomane scampaforche ad entrare nell'agone politico, che io personalmente non do affatto per scontata, ma sulla possibilità che con un uomo affetto da un esasperato nanismo morale, si potesse costruire un cammino comune, e persino cambiare la costituzione. 

Siamo all'epilogo. Giorni fa Napolitano ha centrato uno storico bis, grazie all'accordo tra PD e PDL. Sto ancora cercando di capire per quale motivo sia stato impallinato un uomo del calibro di Stefano Rodotà. Come se non bastasse lo stesso Napolitano ha conferito l'incarico di formare il governo ad un uomo del PD di ascendenza democristiana. Non un compromesso dunque ma una resa senza condizioni della sinistra e delle ragioni di cui dovrebbe essere portavoce. 

    



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