lunedì 2 aprile 2012

Riconoscere il conflitto

Una volta in casa di amici conobbi una ragazza poco più che ventenne, da poco assunta in una catena di hard discount a me nota per praticare ai propri dipendenti condizioni contrattuali piuttosto inique. Passò buona parte della serata ad illustrarmi le offerte che in quei giorni stava promuovendo il punto vendita presso cui lavorava. Parlava dicendo “noi”. Percepiva quindi se stessa e il suo datore di lavoro come la stessa cosa. Lei e il principale, nella sua testa, appartenevano allo stesso mondo. Nessun contrasto. Conflitto sociale rimosso. Padroni e servi marciavano assieme verso il sol dell’avvenir, senza gli intralci della lotta di classe né le novecentesche rivendicazioni dei sindacalisti e dei politici di sinistra.
La ragazza aveva introiettato, per quanto in maniera confusa e certamente inconsapevole, tutti gli slogan del pensiero unico dominante: più beni si producono, più ricchezza e benessere ci saranno per tutti. Va da se che tutto ciò che è di ostacolo al profitto deve essere accantonato senza pensarci troppo, a partire dagli elementari diritti dei lavoratori per arrivare al disconoscimento della specificità di quella merce chiamata lavoro. Insomma, l’importante è che la torta cresca; non contano i criteri di divisione che verranno adottati, né chi sarà legittimato a fare le parti.
Mi sono sentito sconfitto perché non ho avuto il coraggio di demolire la sua ingenuità. E bisogna essere davvero sprovveduti per arrivare a pensare che l’impresa abbia a cuore la sorte dei propri dipendenti.
Nessuna battaglia politica può essere condotta con ragionevole aspettativa di successo se prima non si demolisce il blocco sociale costituito dagli imprenditori e dai loro dipendenti. Dobbiamo, per usare il lessico marxiano, ricostruire la coscienza di classe dopo i durissimi colpi che le sono stati inferti negli ultimi trent’anni, ripartendo quindi dall’ineludibile conflitto tra capitale e lavoro, profitto e salario. Non c’è dubbio, infatti, che questo conflitto esista e che sia connaturato al modo di produzione capitalistico: è necessario riconoscerlo, recuperandolo dallo strumentario culturale del secolo passato.

1 commento:

  1. Accade anche che taluni dipendenti gioiscano per il licenziamento di altri colleghi, definendoli rami secchi, un peso per l'impresa. Tutto ciò scaturisce in prima battuta dalla temporanea situazione di "salvezza", ma nasconde anche una sorta di "orgoglio borghese" verso il proprio datore di lavoro che come un abile contadino pota i rami secchi dell'impresa lasciando quelli fertili e fruttiferi. Va da se che si tratta di un ragionamento da allocco, ma difficilmente imputabile al lavoratore in se quanto alla totale assenza di coscienza, neanche di classe, ma dei più basilari diritti.

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