mercoledì 11 gennaio 2012

Ancora sull'articolo 18


Ho riletto ancora una volta lo Statuto dei Lavoratori e continuo a ritenere non convincenti le ragioni addotte da quanti ne propugnano la sua modifica, con riferimento particolare all’articolo 18.
L’argomento che viene portato con maggior frequenza si può riassumere in queste parole: le aziende non assumono perché non possono licenziare. Se ne desume che, per poter incrementare l’occupazione, si dovrebbe licenziare con più facilità. Una logica piuttosto contorta che posso dare per buona solo per amore di discussione, accettando anche la buona fede dei sedicenti riformisti. Con la rimozione di questo ostacolo, assieme ad altre misure volte ad incentivare la flessibilità del mercato del lavoro, gli imprenditori avrebbero meno remore ad aumentare il numero dei propri dipendenti. Ciò che invece è logico attendersi, e credo che questo in definitiva ci si aspetti dall’abrogazione dell’articolo 18, è che le imprese potranno allontanare con più facilità i lavoratori politicamente scomodi e quelli più attivi nei sindacati sgraditi alla dirigenza.
La norma in oggetto tutelerebbe un’esigua minoranza di lavoratori, risultando così discriminatoria verso tutte quelle categorie che ne rimarrebbero escluse. Questa sarebbe però una ragione per estenderne l’applicazione e non per ridurla ulteriormente.
Vediamo comunque cosa dicono i numeri. In Italia, tolti i dipendenti pubblici e i liberi professionisti, la popolazione attiva ammonta a circa 17,5 milioni di persone, di cui 7, 8 milioni addetti alle imprese con più di 15 dipendenti: sono proprio questi lavoratori la categoria tutelata dall’articolo 18. Secondo  i dati riportati sul sito del settimanale  Panorama le persone reintegrate nel posto di lavoro grazie all’articolo 18 sarebbero non più di 500 ogni anno. L’esiguità della cifra, lungi dall’essere letta come un argomento che milita a favore dell’abrogazione, può essere interpretata come il raggiungimento dell’effetto disincentivante che la norma opera verso l’ingiusto licenziamento, il che corrisponde esattamente alla ratio che ha orientato il legislatore del 1970.
Il dibattito di questi giorni, paradossalmente, si sta concentrando principalmente sulla flessibilità in uscita, cioè su come rendere più facili i licenziamenti.
In Italia ci sono circa due milioni di persone assunte con contratti flessibili: lavoratori che non sono in grado di programmare il proprio futuro, che il più delle volte non sanno quale lavoro faranno il giorno dopo, impelagati nella giungla della parasubordinazione, totalmente esclusi da ogni tutela e da ogni garanzia. Questa si chiama flessibilità, ma io continuo a chiamarlo precariato, una condizione orrenda e devastante anche sul piano psicologico. Dunque si dovrebbe intervenire con misure volte a fare in modo che i precari siano un po’ meno precari. Si dovrebbero limitare i tipi contrattuali e cercare di ricondurli, almeno tendenzialmente, al modello del lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato.
Naturalmente mi rendo conto di essere controcorrente. Spendere poche parole contro lo scandalo del precariato equivale ad una tremenda eresia. Sono convinto però che le ragioni della produzione e del profitto non possano mai andare a detrimento della dignità del lavoro, anche perché scaricare sui lavoratori i costi e i rischi della competitività scatenerebbe, e di fatto sta scatenando, una pericolosa gara al ribasso: da qualche parte del mondo ci sarà comunque qualcuno più affamato di noi disposto ad accettare condizioni sempre più disumane e degradanti.

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